Cos’è il Cultural Profiling?

Ho concepito il Cultural Profiling, come una contaminatio tra più discipline, da applicare ad un medesimo disegno di ricerca, per realizzare un nuovo metodo di analisi, innovativo ed integrato.


Definizione

Il Cultural Profiling  nasce come approccio scientifico allo studio di personaggi storici, problematiche e ambiti culturali, mondo dell’imprenditoria e delle libere professioni.


Metodologia

Prevede la costruzione, attraverso il pensiero logico deduttivo, di una mappa mentale innovativa che si avvalga di strumenti già utilizzati dalle scienze antropologiche, storiche, forensi e criminologiche.


Obiettivo

La finalità di questo tipo di approccio è riuscire a definire un profilo culturale, partendo non più dall’oggetto di studio, bensì leggendo ed analizzando gli elementi di contorno che ce ne parlano, ovvero: una ipotetica “scena del delitto” in campo culturale.


Fonti

Il Cultural Profiling nasce come filiazione di:

  • Storia
  • Criminologia
  • Fisiognomica
  • Antropologia Culturale
  • Psicologia (Psic. della Cultura/Psic. Sociale)

Campi di applicazione

Questa metodologia di studio può essere utilizzata in:

  • ambito di studio e ricerca (es. profilazione personaggi storici)
  • ambito di progettazione culturale (analisi e monitoraggio del mercato culturale)
  • ambito di Marketing (aziende in start up, ricollocazione sul mercato) e  NeuroMKT (studio e realizzazione di brand territoriale, di marca, citybrand, profilazione di un’azienda o di uno studio professionale, studio del suo target di clientela, fidelizzazione al marchio, campagne pubblicitarie mirate, ideazione di punti vendita, ecc.).

Strumenti per misurare la Percezione dei Rischi

EEG-biofeedback (*)

Alla base di questo modello di analisi, vi è una nuova e approfondita comprensione dei meccanismi consci e inconsci dei comportamenti delle persone. L’EEG -biofeedback è una metodologia non verbale che rileva e amplifica alcuni segnali biometrici, quali l’attività elettrica cerebrale che consente di visualizzare le variazioni dinamiche degli stati cognitivo/emozionale.

L’EEG-biofeedback è in grado di registrare, istante per istante, le reazioni neurofisiologiche del soggetto in esame, come rilevando l’attività elettrica del cervello (EEG). L’analisi spettrale dei segnali elettrici generati dal nostro cervello (EEG) permette di individuare le frequenze elettriche che misurano i diversi stati emotivi e cognitivi dell’attività svolta in quel momento dall’osservatore, riuscendo così a collegare le sue reazioni al contesto in cui si trova, attraverso una videoregistrazione, soggettiva e oggettiva, consentendo di ricostruire esattamente l’esperienza vissuta.

L’EEG- biofeedback rileva le reazioni neuro-fisiologiche/emozionali di ogni soggetto sottoposto al test, e le trasforma nei seguenti indicatori:

  • Attenzione generale (intensità dell’attenzione)
  • Focus (attenzione ai particolari)
  • Potenziale di memoria (capacità di memorizzare gli stimoli)
  • Potenziale evocativo (capacità di recuperare informazioni e emozioni da associare agli stimoli)
  • Decoding (livello di difficoltà dell’esperienza)
  • Ansia

Eyetracker (*)

L’eyetrcker è una tecnologia oggettiva che analizza i meccanismi della percezione visiva. Registra la direzione delle sguardo, utilizzando una tecnologia ad infrarossi per individuare dove si focalizza l’attenzione (punti di fissazione, per quanto tempo lo sguardo si fissa su un determinato punto) e che consente di delimitare delle aree (AOI- Area of Interest) corrispondenti agli elementi definiti dall’ analisi (claim, immagine, brand et al.) e verificare per ogni AOI il tempo di permanenza dello sguardo e l’intensità dell’attenzione visiva.

* Attualmente questo tipo di analisi vengono svolte dai laboratori di Neuromarketing della società 1to1lab di Milano.

Per una nuova filosofia di Sicurezza sul Lavoro: la Percezione del Rischio

Dopo anni di attività nel campo della formazione in azienda, sono arrivata a questa conclusione: la necessità  di una nuova filosofia, relativa alla sicurezza sul lavoro. Un approccio innovativo che, per avere successo, non può prescindere da un dato inconfutabile: quanto e come viene percepito il rischio nelle varia attività lavorative.

Si è più volte spiegato in cosa consiste il concetto di informare/addestrare/ formare, ma nelle varie attività (industriali, artigianali  e del terziario) a chi viene demandato tale compito?

Normalmente nelle aziende la formazione dei lavoratori viene svolta dal RSPP (Responsabile Servizio Prevenzione e Protezione), spesso coadiuvato da enti esterni che, prima di procedere vengono edotti sulle realtà operative con cui vanno ad interagire. Nelle PMI, che sono il tessuto organico del nostro Paese, la figura del RSPP spesso è ricoperta direttamente dal datore di lavoro, cui spetta quindi l’obbligo di provvedere personalmente alla formazione dei suoi dipendenti. Voce a parte è la realtà delle grandi aziende, dove invece l’addestramento e la formazione vengono demandati al RSPP coadiuvato dai vari capi reparto per quanto riguarda l’addestramento dei lavoratori alle specifiche mansioni.

È particolarmente in questo secondo caso che sarebbe opportuno valutare la reale abilità dei preposti nel percepire i pericoli e i rischi inerenti alle varie fasi lavorative, perché nella realtà purtroppo, sono proprio queste le figure più reticenti all’approccio sistemico del problema sicurezza, adducendo che l’elemento determinante per un buon lavoro è solo l’esperienza.


Motivi dell’intervento, analisi della domanda e dei bisogni

È proprio a partire da quest’ultima affermazione, che prende l’avvio il progetto di seguito illustrato. Un intervento mirato che trova motivo nell’esigenza di analizzare ed approfondire la tematica della sicurezza sul lavoro, affrontandola da un punto di vista psicologico-cognitivo e formativo. Il punto focale dell’intervento ricade sul complesso fenomeno della percezione del rischio da parte degli utenti e sulla necessità di una sua misurazione funzionale e di supporto a chi ha il compito di formare i lavoratori stessi (Datore di lavoro/RSPP/Preposto).

Le domande che sottostanno all’intervento, quindi, sono molteplici:

  1. I lavoratori, compreso colui che li forma e addestra, sono realmente consapevoli dei rischi presenti sul luogo di lavoro?
  2. La consapevolezza di tali rischi e sufficiente a proteggerli da tali pericoli?
  3. L’abitudine e l’assuefazione, causata dallo svolgere mansioni ripetitive, provoca un calo di attenzione durante l’esecuzione delle stesse, diventando anch’essa una probabile fonte di pericolo?
  4. La figura preposta alla formazione è in grado di assolvere alla sua funzione formativa, nei confronti dei lavoratori? E’ quindi in grado di formare in modo adeguato, esaustivo e funzionale, l’utenza sulla corretta percezione dei pericoli sul posto di lavoro?

Finalità dell’intervento

La finalità di questo metodo è quella di rendere finalmente misurabile, con metriche scientificamente testate la percezione reale del rischio negli operatori, addetti alle diverse mansioni, consentendo così di individuare i nessi di causalità tra criticità e verificarsi degli infortuni. Ciò avviene tramite:

  • Analisi approfondite e mirate della percezione del rischio: riconoscimento dei punti deboli, delle criticità e verifica di come è percepito attualmente il rischio (CECK)
  • Formazione ad hoc (Datore di lavoro/RSPP/Preposto) per una corretta ed efficace trasmissione di informazioni sulla sicurezza.

Emozioni e Cultura

Davanti alla parola emozioni, l’associazione di pensiero ci porta a fare un collegamento con termini come umore (una sensazione di bassa intensità e di lunga durata), sentimento (una condizione affettiva  rivolta verso l’esterno, o verso la propria interiorità, più duratura di un’emozione), stato d’animo (una disposizione dello spirito, temporanea).

Ma l’emozione è qualcosa di diverso e, al di là dell’omogeneità che può fornirci una definizione scientifica, ognuno di   noi ritiene di poterne dare una descrizione più vicina al proprio vissuto, che rappresenti al meglio la sensibilità individuale. Non solo infatti noi viviamo le emozioni, ma attribuiamo loro un significato, un’etichetta. Applichiamo quindi uno schema.

È stato provato che attraverso le emozioni, noi impariamo a conoscerci, indipendentemente dal modo in cui le viviamo. Esistono infatti, in campo psicologico, teorie opposte, ma non incompatibili, che dimostrano come l’individuo, o partendo da uno stimolo fisiologico cui attribuisce una causa, o leggendo un evento in termini cognitivi, si rapporti emotivamente alla realtà. Le neuroscienze ci spiegano che se un fatto ha già in precedenza creato in un soggetto emozioni alla sua corteccia cerebrale, egli sarà in grado di interpretarle. Se invece il fatto non aveva scatenato emozioni istintive, sarà la stessa corteccia cerebrale a dare il maggiore impulso all’amigdala e a creare l’emozione in quell’istante, mediante una decodificazione razionale.

Ma le emozioni, sono allora un fatto istintivo o culturale? Sono qualcosa di innato o di culturalmente appreso? In realtà, non esiste ancora una risposta assoluta.

Nel 1971 Paul Ekman effettuò degli studi in Nuova Guinea, per appurare se esistono delle emozioni comuni, riconosciute in tutte le culture, verificandone la capacità di lettura nel volto delle persone. Dalle sue rilevazioni è emersa l’esistenza di quelle che vengono chiamate le emozioni primarie (rabbia, tristezza, disgusto, sorpresa, gioia, paura) universalmente riconosciute. (Secondo altri autori poi, combinando queste emozioni tra loro, ne deriverebbero delle altre, definite emozioni secondarie o complesse, come ad esempio allegria, vergogna, ansia, gelosia, delusione ecc.). Ma la popolazione su cui questi studi furono effettuati, era una popolazione che si rapportava in maniera mono culturale, avendo pochi contatti con il mondo esterno. Il mondo in cui oggi noi viviamo è notevolmente più complesso, più ricco di stimoli e connessioni tra culture diverse, un mondo che grazie alla progressiva digitalizzazione, comunica e scambia conoscenze e acquisisce competenze in tempo reale, non più con mondi, ma con universi culturali variegati.

Così come per le emozioni, il problema dell’universalità si può affrontare parallelamente anche in tema di cultura. Negli anni 2000 si è sviluppato in America e in  Cina un particolare settore di studi che si occupa proprio di Psicologia della Cultura, all’interno del quale viene prospettato  un modello di mente multiculturale. In Italia si è occupato del tema Luigi Maria Anolli, psicologo di fama internazionale, che ha realizzato il primo manuale italiano in questo specifico ambito scientifico. Anolli propone un paradigma di cultura che ne definisce una doppia natura: non esiste una distinzione tra cultura come realtà oggettiva, pubblica, proposta dall’esterno, e cultura come realtà soggettiva, privata, interiore. Non ha senso contrapporre una concezione etica che considera la cultura una variabile oggettiva ed indipendente, ad una concezione emica, che vede nella cultura qualcosa di unico, isolabile, irripetibile, non confrontabile con analoghi fenomeni che si verifichino altrove. Con la cultura ci troviamo di fronte, secondo Anolli, che fa suo e ripropone il modello della mente multiculturale, ad un fenomeno che progressivamente si evolve e, adottando via via nuovi strumenti di realizzazione, è in grado sia di adattarsi a condizioni ambientali diverse, sia di influenzare  in senso biologico l’individuo e la popolazione cui appartiene.

Per accomunare ora i due concetti di cui abbiamo fin qui trattato, proviamo a ragionare in modo un po’ provocatorio e  poniamoci una domanda : la cultura, intesa nell’accezione più ampia con cui questo termine viene usato nel nostro linguaggio abituale, può generare emozioni? O ancora: l’emozione che noi proviamo davanti ad un episodio legato all’arte, alla musica, alla letteratura, alla visione di un quadro o di un paesaggio, può essere generatrice di cultura?

Questo è un tema che, in un particolare momento storico come quello che stiamo vivendo, è molto sentito a livello mondiale, ed anche in Italia c’è chi si sta occupando di analizzare il problema di come fare a rivalutare e potenziare la creatività dell’individuo ed incentivare la sua capacità innovativa, partendo proprio dalla capacità di ognuno di provare emozioni.

A Milano è nata infatti Commonlands, un’associazione composta da esperti di neuromarketing, comunicazione, psicologia sociale, che sta tentando di certificare ad esempio il valore emozionale di un paesaggio. Applicando i principi e le strumentazioni usate già nel marketing emozionale, gli stessi criteri si possono adottare per stabilire quale sia l’impatto emozionale che suscita in un individuo la visione di un determinato panorama, quanto questo possa essere identificativo della cultura di un luogo, quanto sia in grado di valorizzare l’intero patrimonio culturale di una specifica zona geografica.

Il legame tra emozione e cultura quindi, non è poi così labile come si potrebbe ritenere. Anche perché la sensibilità di chi sa provare emozioni forti non può che  essere considerata  lo strumento indispensabile e decisivo per intraprendere nuovi percorsi culturali nel millennio appena iniziato.

Box pubblicato in “Marketing emozionale e Neuroscienze”, F. Gallucci, EGEA, 2011, pag. 330