Davanti alla parola emozioni, l’associazione di pensiero ci porta a fare un collegamento con termini come umore (una sensazione di bassa intensità e di lunga durata), sentimento (una condizione affettiva rivolta verso l’esterno, o verso la propria interiorità, più duratura di un’emozione), stato d’animo (una disposizione dello spirito, temporanea).
Ma l’emozione è qualcosa di diverso e, al di là dell’omogeneità che può fornirci una definizione scientifica, ognuno di noi ritiene di poterne dare una descrizione più vicina al proprio vissuto, che rappresenti al meglio la sensibilità individuale. Non solo infatti noi viviamo le emozioni, ma attribuiamo loro un significato, un’etichetta. Applichiamo quindi uno schema.
È stato provato che attraverso le emozioni, noi impariamo a conoscerci, indipendentemente dal modo in cui le viviamo. Esistono infatti, in campo psicologico, teorie opposte, ma non incompatibili, che dimostrano come l’individuo, o partendo da uno stimolo fisiologico cui attribuisce una causa, o leggendo un evento in termini cognitivi, si rapporti emotivamente alla realtà. Le neuroscienze ci spiegano che se un fatto ha già in precedenza creato in un soggetto emozioni alla sua corteccia cerebrale, egli sarà in grado di interpretarle. Se invece il fatto non aveva scatenato emozioni istintive, sarà la stessa corteccia cerebrale a dare il maggiore impulso all’amigdala e a creare l’emozione in quell’istante, mediante una decodificazione razionale.
Ma le emozioni, sono allora un fatto istintivo o culturale? Sono qualcosa di innato o di culturalmente appreso? In realtà, non esiste ancora una risposta assoluta.
Nel 1971 Paul Ekman effettuò degli studi in Nuova Guinea, per appurare se esistono delle emozioni comuni, riconosciute in tutte le culture, verificandone la capacità di lettura nel volto delle persone. Dalle sue rilevazioni è emersa l’esistenza di quelle che vengono chiamate le emozioni primarie (rabbia, tristezza, disgusto, sorpresa, gioia, paura) universalmente riconosciute. (Secondo altri autori poi, combinando queste emozioni tra loro, ne deriverebbero delle altre, definite emozioni secondarie o complesse, come ad esempio allegria, vergogna, ansia, gelosia, delusione ecc.). Ma la popolazione su cui questi studi furono effettuati, era una popolazione che si rapportava in maniera mono culturale, avendo pochi contatti con il mondo esterno. Il mondo in cui oggi noi viviamo è notevolmente più complesso, più ricco di stimoli e connessioni tra culture diverse, un mondo che grazie alla progressiva digitalizzazione, comunica e scambia conoscenze e acquisisce competenze in tempo reale, non più con mondi, ma con universi culturali variegati.
Così come per le emozioni, il problema dell’universalità si può affrontare parallelamente anche in tema di cultura. Negli anni 2000 si è sviluppato in America e in Cina un particolare settore di studi che si occupa proprio di Psicologia della Cultura, all’interno del quale viene prospettato un modello di mente multiculturale. In Italia si è occupato del tema Luigi Maria Anolli, psicologo di fama internazionale, che ha realizzato il primo manuale italiano in questo specifico ambito scientifico. Anolli propone un paradigma di cultura che ne definisce una doppia natura: non esiste una distinzione tra cultura come realtà oggettiva, pubblica, proposta dall’esterno, e cultura come realtà soggettiva, privata, interiore. Non ha senso contrapporre una concezione etica che considera la cultura una variabile oggettiva ed indipendente, ad una concezione emica, che vede nella cultura qualcosa di unico, isolabile, irripetibile, non confrontabile con analoghi fenomeni che si verifichino altrove. Con la cultura ci troviamo di fronte, secondo Anolli, che fa suo e ripropone il modello della mente multiculturale, ad un fenomeno che progressivamente si evolve e, adottando via via nuovi strumenti di realizzazione, è in grado sia di adattarsi a condizioni ambientali diverse, sia di influenzare in senso biologico l’individuo e la popolazione cui appartiene.
Per accomunare ora i due concetti di cui abbiamo fin qui trattato, proviamo a ragionare in modo un po’ provocatorio e poniamoci una domanda : la cultura, intesa nell’accezione più ampia con cui questo termine viene usato nel nostro linguaggio abituale, può generare emozioni? O ancora: l’emozione che noi proviamo davanti ad un episodio legato all’arte, alla musica, alla letteratura, alla visione di un quadro o di un paesaggio, può essere generatrice di cultura?
Questo è un tema che, in un particolare momento storico come quello che stiamo vivendo, è molto sentito a livello mondiale, ed anche in Italia c’è chi si sta occupando di analizzare il problema di come fare a rivalutare e potenziare la creatività dell’individuo ed incentivare la sua capacità innovativa, partendo proprio dalla capacità di ognuno di provare emozioni.
A Milano è nata infatti Commonlands, un’associazione composta da esperti di neuromarketing, comunicazione, psicologia sociale, che sta tentando di certificare ad esempio il valore emozionale di un paesaggio. Applicando i principi e le strumentazioni usate già nel marketing emozionale, gli stessi criteri si possono adottare per stabilire quale sia l’impatto emozionale che suscita in un individuo la visione di un determinato panorama, quanto questo possa essere identificativo della cultura di un luogo, quanto sia in grado di valorizzare l’intero patrimonio culturale di una specifica zona geografica.
Il legame tra emozione e cultura quindi, non è poi così labile come si potrebbe ritenere. Anche perché la sensibilità di chi sa provare emozioni forti non può che essere considerata lo strumento indispensabile e decisivo per intraprendere nuovi percorsi culturali nel millennio appena iniziato.
Box pubblicato in “Marketing emozionale e Neuroscienze”, F. Gallucci, EGEA, 2011, pag. 330